Testo di Tiziana Conti

Testo di Tiziana Conti

Il processo estetico vive
della sorpresa
viene definito dalla quantità di imprevedibilità,
di ordine che è in grado di 
realizzare.

M. Bense




 

I confini della pittura si sono fatti incerti; la consistenza del linguaggio pittorico è diventata meno omogenea, meno compatta. L’opera ha assunto una identità dai contorni sfumati, ha acquisito una dimensione problematica che ne ha mutato la struttura sino a trasformarla in un «testo».

La smaterializzazione del linguaggio pittorico implica lo sconfinamento in altri territori, così che scompaiono le distinzioni radicali tra gli ambiti di pertinenza delle singole arti visive e si accentua l’importanza della decodificazione e della destrutturazione.
La scomparsa di slabbrature nella trama della pittura lascia emergere ampie zone di instabilità e inconstanza che consentono di interpretare l’opera come FATTO, rinunciando alla pura enunciazione, per privilegiare la dimensione ermeneutica.

La ricerca di Stefano Bonzano si colloca in questa zona di confine della pittura, carica di tensioni e di effetti singolari. Egli sconfina nel territorio dell’architettura; lo si constata con chiarezza nelle intenzioni analitiche, nella progettazione rigorosa, nell’attenzione e nel controllo dell’assetto compositivo.
Ma in lui è innato il senso pittorico che gli consente di fluttuare liberamente tra lo spazio reale e l’immaginazione, tra il piano formale e quello processuale, lasciando emergere l’idea del quadro come SOGLIA, varco obbligato verso un mondo di referenti simbolici.
L’architettura diventa allora una vera e propria metodica di vita, i luogo di un’utopia incentrata sul ruolo dell’uomo e su alcuni paradossi esistenziali: nasce un dialogo proficuo con la pittura, che feconda e fa germinare configurazioni esistenziali mutevoli.


Bonzano avverte la suggestione dell’arte classica e lo si constata nell’impianto dei lavori, nei ritmi, nell’uso della citazione vera e propria da artisti del passato, traslazione di frammenti di opere ricollocati in un campo semantico diverso.
L’elemento classico diventa tuttavia, paradossalmente, anche un’immagine speculare delle ambiguità del reale: isolamento, solitudine, svuotamento dell’azione e del gesto. L’architettura si fa manifestazione dello spirito: il luogo delle OSSESSIONI, delle disillusioni, delle memorie frantumate, dove si consuma il conflitto tra individuo e cosalità.
Lo spazio assume una struttura teatrale, fortemente drammatica per l’irrigidimento del tempo e l’assenza di azione. L’unica presenza è quella dell’OMBRA, proiezione fantasmatica, sconcertante, in un universo inconoscibile.
In questo modo Bonzano costruisce una contro-architettura immaginifica, carica di valenze simboliche, nella quale il DETTAGLIO è elemento centrale.
Ogni lavoro infatti è ideato e realizzato intorno ad un particolare che viene elaborato e contestualizzato all’interno di un percorso strategico. L’artista erge muri alti, labirintici, costruisce stanze, celle claustrofobiche che nella regolarità mettono a nudo la singolarità dell’individuo.
Esse hanno implicazioni profonde, richiamano alla memoria, come lucidamente afferma Peter Halley, i termini isolati della struttura industriale: condomini, letti di ospedale, banchi di scuola. Sono parallelepipedi, cubi, che assumono l’identità di una prigione: geometria come segregazione.
Tra i muri, nelle celle, Bonzano disperde l’individuo, la cui esistenza è ridotta ad una esile traccia, reperto sottratto alla dimensione umana.
Essa proietta un’ombra tremula, allungata, che si dissecca in un segno-impronta, reso concreto dall’artista attraverso chiodi corti, sottili, disposti con apparente casualità.
Il contrasto tra le proporzioni sottolinea l’impotenza dell’azione: kafkianamente l’uomo tenta di muoversi, di uscire dalla fissità, ma il suo gesto è sempre e comunque vanificato. Lo dimostrano le lunghe file di individui, il cui cammino si infrange contro un ostacolo, a indicare l’identità tra la vita e il circolo vizioso. Ogni legame si annulla, risucchiato dalla circolarità di un movimento privo di sbocchi. La particolare commistione tra uomo e architettura determina un «paesaggio» secco, riarso, estraniante, che comunica un senso acuto di vertigine. È inevitabile pensare all’uomo di Giacometti, che tenta di uscire dalla prigionia del sé, per liberare la sua molteplicità e si trasforma in graticcio, rete, filo nodoso. Nei lavori più recenti l’atmosfera si è ulteriormente rarefatta e sono scomparse le sorprese cromatiche.
Il rosso – sanguigno, vitale, prepotentemente scenografico – con il quale Bonzano sottolineava nelle opere precedenti la possibilità del gesto, ha lasciato il posto ai grigi che accentuano la perdita di un centro armonico ed equilibrante: il processo di semplificazione cromatica corrisponde alla catatonica esistenziale.
Per contro si è accentuata l’importanza del supporto sul quale la tela poggia, esso stesso «opera», perfettamente amalgamata con la tela: sempre diverso, ma sempre a struttura reticolare, a maglie strette ed impenetrabili, che palesano la tensione profonda tra chiusura e ansia di spazi aperti. Oltre la SOGLIA si aprono territori inesplorati, minacciosi eppure tentatori, che non consentono certezze, quanto piuttosto supposizioni e congetture.

L’unica realtà possibile nella vita e nell’arte.

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