“Il corpo umano e l’architettura del dubbio” di Ivan Quaroni

"Il corpo umano e l'architettura del dubbio" di Ivan Quaroni

Sulla centralità del corpo umano nell’arte occidentale si è molto scritto e dibattuto e sebbene la classicità abbia fornito numerosi esempi in tal senso, è solo con l’umanesimo rinascimentale che esso ha conquistato una preminenza assoluta.
Il momento fondante è databile al 1490 circa, con l’esecuzione leonardesca del celeberrimo Uomo Vitruviano, conservato nel Gabinetto dei Disegni e delle Stampe delle Gallerie dell’Accademia di Venezia. Il disegno mostra la rappresentazione delle proporzioni ideali di un corpo umano inscritto nelle figure geometriche del cerchio e del quadrato. Leonardo, che in quel periodo frequentava Francesco Di Giorgio Martini e veniva a conoscenza delle idee espresse nel Trattato di Architettura di Vitruvio, tentò di tradurre in quel disegno un concetto di armonia matematica e divina. Il corpo umano diventava, così, l’epitome della perfezione naturale e celeste e il simbolo di una visione antropocentrica del cosmo, ma la sua sacralità era da lungo tempo sancita dalla scrittura biblica. La celebre interrogazione paolina “Non sapete che il vostro corpo è il tempio dello Spirito Santo che è in voi e che avete ricevuto da Dio?” – (1 Corinzi 6:19) – ne sottolineava la dignità e suggeriva di avere verso il corpo un atteggiamento rispettoso e reverente.
Si ha tuttavia la sensazione che oggi il motivo per cui il corpo umano continui ad essere oggetto delle più disparate ricerche artistiche, non abbia nulla a che vedere con tali concezioni. A pesare è forse quella che Hans Sedelmayr definiva La perdita del centro, ossia la progressiva desacralizzazione della società occidentale e il conseguente smarrimento di un sistema di valori basato sulla fede.
A loro modo, gli artisti performativi e i body artist hanno tentato, anche attraverso pratiche estreme, una ridefinizione del ruolo sociale e civile del corpo umano, ma, in definitiva, tali ricerche non hanno sgombrato il campo da dubbi e incertezze.
Il cosiddetto mind-body problem, inerente alla questione dei rapporti tra pensiero e biologia, oggi indagati anche dalle nuove scienze, lascia aperta la questione. Un artista contemporaneo che pone il corpo umano al centro della propria ricerca, deve necessariamente partire da questo stato d’incertezza gnoseologica, da questa condizione di profondo smarrimento che, insieme, uno stato di ardente desiderio di conoscenza. Proprio da qui, prende le mosse Stefano Bonzano, artista, architetto e designer che, in questa nuova fase della sua ricerca, fa del corpo umano, e di tutto ciò che esso contiene e cela, il principale oggetto delle sue sculture.
“Cosa è il corpo biologico in cui vivo e in cui vivono i miei compagni di viaggio?” si chiede l’artista, “Cosa contengono questi corpi?”. Sono domande che fanno capo alla più antica delle questioni sul senso della vita e della nostra identità. Bonzano interpreta il corpo come una periferica di collegamento tra il mondo interiore ed esteriore, una sorta d’interfaccia tra individuo e universo, che occulta spinte emotive, pulsioni istintive e aspirazioni spirituali.
Rispetto a queste istanze immateriali, il corpo diventa per l’artista niente più che una gabbia, una griglia detentiva entro la quale si affastellano simboli collettivi e memorie individuali, materializzazioni di eventi psichici oppure di oggetti significativi.
L’idea del corpo come “gabbia” dello spirito ha il sapore di una reminescenza della teologia medievale, la quale lo considerava appunto il ricettacolo di ogni corruzione, ma nel caso di Stefano Bonzano esso è soprattutto una struttura, un insieme funzionale di elementi organizzati, in cui è lecito ravvisare l’imprinting dell’architetto, la sua attitudine squisitamente progettuale. Non più templi dello spirito, ma certamente edifici della memoria, le sculture di Bonzano, scandite da una fitta griglia metallica, ci restituiscono con esattezza la morfologia delle forme umane. Eppure, s’intuisce che il senso delle opere sta non tanto nella griglia, ma piuttosto dentro quei corpi, in quello sconcertante vuoto pneumatico, attraversato, e quasi penetrato, da oggetti paradigmatici.
È il caso dell’opera intitolata Pioggia di ricordi, dove il simulacro dell’uomo con l’ombrello diventa ricovero di vecchie cartoline postali, topoi di una memoria tanto labile, quanto precaria.
Altri oggetti si annidano nelle gabbie antropomorfe di Bonzano. Ad esempio, le enigmatiche pietre pensili nella coppia composta da Lui e Lei, in cui gli opposti cromatismi dei minerali sembrano alludere al dualismo dei generi maschile e femminile. In Ballerina, invece, è il corpo stesso, in foggia di danzatrice, a essere contenuto in una struttura più grande, una sagoma femminile bidimensionale. Ecco, in questo caso l’artista intreccia una nuova relazione tra struttura e sovrastruttura e la forma umana diventa una “figura” interiore, analoga al fanciullino pascoliano. Similmente, l’aggraziata statuina di un nudo virginale, serra all’interno del petto una piccola farfalla, metafora delicata dell’elan vital. Diogene è, invece, un’opera tributo al filosofo di Sinope, che pare si aggirasse in pieno giorno con una lanterna accesa. Ma l’artista, tradendo la sua di passione per il design, tramuta la lanterna in una moderna lampada con le ali, ready made, seppure parziale, di un famoso oggetto disegnato da Ingo Maurer.
“Diogene cerca l’uomo attraverso le passioni, le paure, i ricordi”, racconta Bonzano, e con questa citazione è come se l’artista ci introducesse nella parte più introspettiva della sua ricerca, quella dedita all’analisi del sì.
L’opera intitolata I volti della mia vita appare, infatti, come una riflessione sulla parcellizzazione interiore dell’individuo, frammentazione che riecheggia il pirandelliano Uno, nessuno e centomila. Ma le maschere di gesso dipinte che l’autoritratto dell’artista regge (e contiene), sono anche quelle dei suoi familiari, immagini insieme reali e simboliche, che arricchiscono l’identità dell’individuo. Una possibilità, questa, che perfino la scienza noetica contempla, rilevando l’effettivo scambio cellulare e chimico tra organismi che vivono in uno stato di prossimità fisica e affettiva.
Bonzano sembra quindi suggerire l’eventualità che la personalità, sia, in definitiva, il risultato di una sommatoria, di una sorta di aggregazione psichica. Una prospettiva simile, per certi aspetti, a quella del mistico armeno George Ivanovitch Gurdjieff, che sosteneva la coesistenza di una moltitudine di personalità contrastanti all’interno dell’individuo.
Coerenti con questo genere di riflessioni sono i lavori scaturiti dall’interazione tra le sculture in filo di rame saldato e le superfici specchianti, opere che generano l’impressione di una continuità tridimensionale e volumetrica nella dimensione virtuale dello specchio. Si tratta principalmente di figure atletiche di trapezisti impegnati in difficili evoluzioni, sezioni longitudinali di anatomie che, grazie la riflessione dello specchio integra e completa.
Proprio alla luce di quanto si è fin qui detto, l’introduzione degli specchi, assume quantomeno una valenza anche simbolica. Nelle credenze popolari e nelle tradizioni folcloriche, c’è una forte connessione tra lo specchio e l’anima dell’uomo. Lo specchio sarebbe un duplicatore non solo della realtà fenomenica, ma anche di quella spirituale. Non è un caso, che creature demoniache come i vampiri non possano vedervi riflessa la propria immagine e che per mostri come il basilisco, lo specchio sia addirittura uno strumento mortale. Emblema della verità, ma anche dell’illusione e della vanitas (si tenga a mente il famoso romanzo di Wilde), lo specchio si presta a molteplici interpretazioni simboliche. Allo stesso modo, le sculture di Bonzano innescano diverse possibilità di lettura, proprio perchè pongono questioni di ordine universale. Così, se lo sforzo ermeneutico è demandato alla sensibilità e alla cultura dell’osservatore, resta, invece, una prerogativa dell’artista, la scelta del modo di porre tali questioni.
Bonzano costruisce il corpo umano come una forma architettonica, come una griglia razionale perchè esso appartiene al dominio operativo del visibile, che la ragione può comprendere e descrivere. Ma quando si tratta di dare forma al regno dell’invisibile e dell’indicibile, sia esso quello ctonio della psiche o quello iperuranio dello spirito, il suo approccio muta. Memoria, emozioni, pulsioni, conflitti e aspirazioni interiori possono essere descritti solo per via indiretta, tramite il linguaggio sibillino dell’allusione e della metafora. Ed ecco che all’interno dell’architettura anatomica, in quel vuoto pneumatico dove vige una diversa grammatica compositiva, il comparire di una pletora di oggetti epifanici, recuperati dall’immenso serbatoio della realtà. Sono oggetti transitivi, significanti in attesa di significati. Ancora una volta, si tratta di domande che attendono risposte. In fin dei conti, non è forse l’interrogazione, il vero scopo della ricerca artistica?

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